
(screenshot Eurosport)
di Mauro Romanenghi
Leggo che il CIO spende parole sul benessere psicofisico degli atleti eccetera eccetera.
Facciamo qualche considerazione generale.
Lo sport dovrebbe fare bene, tenere in salute la gente e aiutare il sistema sanitario. Ma sport significa attività fisica di un certo tipo, fatta a un certo livello e che porta beneficio agli atleti.
Qui siamo alle Olimpiadi, e alle Olimpiadi conta una e una sola cosa: vincere.
Per vincere bisogna allenarsi e soffrire, soffrire e soffrire. Che è tutto il contrario di stare bene. Quindi se volete vincere, dovete fare una scelta, ricordatelo.
Il CIO stesso parla bene ma razzola male: vende il nuoto con le finali al mattino, che sono l’antitesi della migliore prestazione, per soldi. Vuole i multimedagliati, e inserisce sempre più gare per avere il grande protagonista per vendere l’evento. Ecco allora i Phelps, le Biles, i Dressel, i Bolt. Ma vincere tanto non deve essere un accumulo di titoli come i soldi di Paperone nel deposito. Deve essere il risultato del fatto che gareggi con piacere. Questo, come si vede, non viene fatto.
Qualificarsi è spesso difficile, e in alcune gare qualificarsi ti da quasi la possibilità di concorrere a una medaglia. Pensate alla scherma a squadre: basta passare un turno e si entra in zona podio.
Nel mondo moderno se perdi sei un nessuno, uno sfigato, uno che non ha ottenuto niente. Se ti qualifichi in finale con il primo tempo e poi arrivi quarto hai sbagliato, non hai retto la pressione, non sei capace di gestire le emozioni. Ma sei quarto al Mondo, non bisogna scordarlo.
Forse. O forse no. Semplicemente oggi viviamo nell’era degli esperti in nulla.
Se prima c’erano in Italia sessanta milioni di CT di calcio, tutti incapaci nel 90% dei casi di tirare un pallone con precisione persino attraverso la porta di casa, oggi esistono milioni di esperti di nuoto, vela, taekwondo, bocce, curling, atletica che probabilmente non hanno mai nuotato più di una vasca di fila a stile, o anche se lo hanno fatto non hanno la vaga idea di cosa sia nuotare dieci chilometri al giorno perché non li fanno a piedi neanche in una settimana.
Viviamo in un’epoca globalizzata, nell’epoca in cui le critiche ti arrivano da ogni dove. Io ho ricevuto una volta degli insulti dicendo che avrebbero espresso tramite social il disappunto nei miei confronti. Ovviamente non è mai successo, perché poi bisogna rendere conto di ciò che si dice.
Gli atleti non sono macchine: leggono, sentono, ascoltano, interpretano, sono sottoposti a questo bombardamento mediatico che gli arriva dappertutto ed è amplificato dalla stampa e da mille siti che pur di avere qualche clic in più amplificano ogni errore, ogni comportamento, ogni parola, ogni pensiero.
Gli atleti non sono sempre sorridenti, non sono sempre simpatici, non sono sempre disponibili. Ma se non vanno a un evento allora sono spocchiosi, se ci vanno devono pensare ad allenarsi. Ricorderete la Pellegrini che fa il giudice a un talent: ma se fa il giudice allora perde il tempo per allenarsi. Neanche ci pensano che sono tutte cose preregistrate, che si fanno più puntate alla volta, che non è vero tutto quello che si vede. Questi reality, questi talent, sono spesso tutto tranne dimostrazioni di realtà, spesso non sono neanche dal vivo ma registrati, con la possibilità di rifare infinite volte la stessa scena, fino a renderla perfetta.
Alle Olimpiadi invece è tutto live: non puoi sbagliare, non puoi rifare la battuta, non puoi tagliare la parolaccia in diretta. Gli atleti sono veri, non sono attori. E sono umani.
E la verità spesso fa male. Quando si dice a uno che fa schifo, quando si ripete a un campione che non vale nulla perché anziché l’oro ha vinto il bronzo, oppure è arrivato quarto, questo si ripercuote sul suo spirito e poi sul suo corpo.
Ho visto tantissime facce da funerale questi Giochi. La faccia di Katie Ledecky, pluricampionessa olimpica, dopo il quinto posto dei 200, sembrava quella di una rimasta senza famiglia. Una ragazza che ha vinto, in questa edizione, due ori e un argento e ha nella sua saccoccia qualcosa come sette ori ai Giochi.
A noi piace scherzare, io stesso sdrammatizzo nei miei articoli le situazioni di tensione che vivo al di dentro, perché mi trovo a contatto con giovani atleti di ogni livello. Ma scherzare non significa insultare o banalizzare. Io conosco bene il sacrificio che viene fatto o non viene fatto da certe persone. E se so che quella tale persona non si impegna, non lesino critiche anche severe su questo. Ma se questo è il suo modo di intendere lo sport, mi adeguo; l’importante è che lui non abbia come obiettivo la vittoria assoluta, perché quello richiede come presupposto ciò che ho scritto nel primo paragrafo. Ovvero lacrime e sangue.
Lo sport con più pressioni sembra essere la ginnastica artistica, dove soprattutto le ragazze, spesso giovanissime, vengono portate lontano da casa per anni (e non solo in italia, ma ovunque) o per sempre, entrando nei corpi militari e quindi hanno dei doveri anche istituzionali, essendo poi pagate da noi attraverso lo Stato e quindi sono obbligate ad avere certe performance. Ricordo ancora la statunitense obbligata a saltare al volteggio con la caviglia rotta per far vincere l’oro agli USA.
Riflettiamo bene quindi quando sulla tastiera, o nei nostri vocali, o parlando, ricordiamo quanto schifo facciano questi ragazzi, a cui però ci attacchiamo come semidei per cinque minuti quando ci portano un oro olimpico.
Il mestiere italico, tra l’altro, è quello di non esser mai contenti. Se vinciamo cento medaglie ma nessuna d’oro, siamo dei poveracci. Certo, è meglio vincere un oro, ma se non si vince non morirà nessuno. Meglio facce di bronzo felici, che facce tristi con un oro in tasca.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.